«Diritto colpiscono le aquile» o dello schema dinamico della nobiltà dell’anima

«Sensorio metaforologico» e «psichismo ascensionale» nell’estetizzazione nietzscheana della morale.

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«Mais le symbole va plus loin que l’acte, explique chacun des nos gestes en termes de mécanique éternelle»
Les mémoires d’Hadrien, M. Yourcenar

Nel suo saggio sull’immaginazione elementale dell’aria Bachelard [1] individua una significativa scaturigine teoretica nietzscheana dal riverbero iconico dell’immaginazione dinamica della materialità aerea. Se giustamente la dimensione del registro filosofico non può essere ridotta nel caso Nietzsche all’elemento puramente immaginale, a quest’ultimo può, però, essere proficuamente ricondotta. Il dinamismo dell’immaginario, pur non rappresentando, quindi, un fattore fondativo della proposta filosofica di Nietzsche, ne assume, altresì, i lineamenti di tema fondante e ci esorta a sondare «in che modo le immagini dell’elevazione preludano alla dinamica di una vita morale».

La pratica schiettamente filosofica di Nietzsche si presta, ed anzi, pare anelare ad essere sussunta emblematicamente dal lirismo della poetica immaginale, ed a ricevere da questa un motivo conduttore, che, nelle sua varianti, ne rende coerentemente vivida la fisionomia: «la poetica di Nietzsche è in questo caso precorritrice: prelude alla morale nietzscheana». Gli elementi che Bachelard enuclea per distinguere lo psichismo ascensionale che caratterizza ed innerva la filosofia di Nietzsche, e si cristallizza nella sua poetica, rappresentano le indicazioni agogiche per rintracciarne la movenza fondamentale e l’afflato di fondo, ovvero che «in Nietzsche, il poeta spiega in parte il pensatore» [2].

Secondo Bachelard l’elemento aereo si connota per Nietzsche più per la sua dimensione dinamica che materiale, più nella motilità che l’aria esige e che in essa si consacra, piuttosto che nella sostanzialità stessa: per Nietzsche l’aria è, sì, la «sostanza della nostra libertà», ma si anima e al contempo satura la propria composizione in quanto «vera patria del rapace» [3]. La caratterizzazione dell’immaginario dell’aria che ispira il lirismo nietzscheano individua, dunque, un habitat che acquisisce la dignità del fondale elementale in cui è possibile esibire nella concrezione simbolica il significato filosofico della rapacità. La significatività dell’analisi bachelardiana dello psichismo ascensionale dischiude, così, una prospettiva feconda sulla concezione morale e politica nietzscheana della quale si presta a rifrangere più nitidamente il profilo filosofico attraverso l’icasticità dell’elemento simbolico: «le immagini nietzscheane possiedono una doppia coerenza che anima, separatamente, la poesia e il pensiero».

L’aria è per Nietzsche «la sostanza priva di qualità sostanziali», «è la gloria immensa di un Nulla» che «non dà nulla» e che invoca la predazione, istigando a prendere tutto. In un compiuto chiasmo di esclusioni la gioiosità aerea si smarca dalla tetra e gravosa opulenza terrestre, dalla melliflua e servile accidia acquatica ed, ancora, dall’idolatrica e ancheggiante ipnosi ignea: la gioia dell’aria è la sua libertà, una gioia «libera dall’attaccamento alla materia». L’infinita sostanza aerea si fende, infatti, con libertà «offensiva e trionfante», come il fulmine, come la freccia; con «sguardo imperioso e dominante», come l’aquila: nell’aria, nota crucialmente Bachelard, «non ci si nasconde» [4]. Proprio questo elemento, opimo di implicazioni teoretiche, della necessaria ed inaggirabile esposizione a cui l’aria condanna e che contemporaneamente concede a chi ne trae nobilitazione, nella quale «si porta la propria vittima alla luce del giorno», sublima emblematicamente lo svolgimento filosofico del tema: l’aria è l’elemento dell’immediato.

Prima di analizzare più in dettaglio l’ostensività dell’elemento aereo rispetto alla tematica dell’immediatezza nell’economia della riflessione morale e politica dell’estrema propaggine del pensiero di Nietzsche, si presenta senz’altro come opportuno individuare le peculiarità dell’ecosistema immaginale dell’aria seguendo la tesi di Bachelard e sposando la sua fiducia sperimentale nella potenza assolutamente primitiva dell’immaginazione dinamica.

Coerentemente la libertà aeriforme non si presta ad essere vettore di alcun odore, essa rifugge necessariamente l’impurità, certifica l’incondizionata felicità del grado zero della sensazione, un’aria «senza futuro, senza ricordi…», che recide la catena della memoria per scoprirsi sempre virginea, intonsa, giacché l’aria migliore è quella «caduta giù dalla luna», che mai si è dovuta impregnare e nemmeno imbastardire del troppo umano; in effetti un’aria come non la si è mai respirata, né potuta respirare, «come uno che su nuove terre assapori un’aria nuova». In quanto inesorabilmente incatenato al riconoscimento e imbelle alla rievocazione, l’olfatto è il senso di una memoria dall’aria viziata che si rattrappisce sul ricordo, che appesantisce il tempo osteggiando il suo librarsi verso un fluire nuovo, il cui avvento erompe invece dalla grande frescura, promessa e premessa della potenza: «questa frescura è la vera qualità tonificante dell’aria, […] la qualità che rende dinamica l’aria immobile».

Questa dinamizzazione del profondo avviene, dunque, per sottrazione: non solo dal pregno al neutro dell’odorato, ma anche elidendo le condizioni climatiche dell’agio, del cantuccio, del comfort, irrobustendosi nell’algido panorama iperboreo, «al di là del nord, del ghiaccio, dell’oggi»; un freddo paradossale, che al passivo assideramento, preferisce ghermire di attiva siderazione, prendendo dall’aria il proprio appannaggio di «virtù offensive», di gioiosa cattiveria», che «risveglia la volontà di potenza, una volontà di reagire al freddo», e dunque un’aria selettiva, che trasceglie e consacra «un corpo più alto», che vuole crescere in un’aria «fine, viva e sottile».

La sottrazione olfattiva e quella termica introducono un’altro essenziale «valore nietzscheano»: il silenzio. In questa triplice corrispondenza Bachelard individua una radice trina dell’ecosistema iperboreo, di una «medesima sostanza». Il silenzio non guadagnerebbe la sua offensiva baldanza se fosse un tiepido refolo terricolo; d’altro canto se non fosse un salubre silenzio diaccio non penetrerebbe integrandosi nella natura di coloro che offrono ad esso il loro respiro; infine una borea ululante spezzerebbe la pace delle cime ed impedirebbe di sentire in modo elevato: «Chi sa respirare l’aria dei miei scritti sa che è un’aria delle cime, un’aria forte. Bisogna essere nati per respirare quell’aria, altrimenti si corre il rischio, non piccolo, di raffreddarsi, lassù. Il ghiaccio è vicino, la solitudine immensa – ma che pace illumina le cose! Come si respira liberamente! Quanta parte del mondo, sentiamo sotto di noi!» [5].

Secondo l’analisi di Bachelard la composizione concreta frutto dell’immaginazione materiale e dinamica produce «per l’entusiasmo di una poesia nuova, nuovi valori morali» [6]. Proprio questa estetizzazione della morale rappresenta una peculiarità nietzscheana che merita di essere indagata nella misura in cui come sostiene Bachelard «l’immaginazione promuove l’essere», non separandosi, nella sua fattispecie più efficace, quella morale, «dalla novazione delle immagini fondamentali» [7].

Nel suo programma di denudamento delle pretese della «psicologia intellettualistica» di ridurre la metafora ad allegoria [8], Bachelard evidenzia, infatti, il gradiente di solidarietà tre «l’essere che immagina e l’essere morale», riconoscendo che «l’immaginazione, più della ragione, è la forza dell’unità dell’anima umana» [9].

In questa cornice poetica l’aria e l’altitudine nietzscheane «si popolano di tutto un mondo di uccelli», i quali sotto la forma astratta del loro movimento, scevro d’apparenza e muto di canto forniscono «un perfetto schema dinamico»10. L’elemento cruciale dell’immaginario dell’aria di Nietzsche è il carattere «impetuoso ed offensivo» del volo, un volo rapace, non solo perché potente ma perché, appunto, rapisce; accompagnato da un «repentino sapore di potenza», ingrediente essenziale della felicità di volare. L’uccello rapace è l’immagine della superiorità stessa e il sigillo che preserva il volo d’alta quota dal convertirsi in esilio, lontano dalla terra, ma, al contrario, lo incita a volgersi incessantemente in assalto: «l’aria, come tutti gli elementi doveva individuare il suo guerriero», ispirato da una saggezza selvaggia e delirante, ma orgogliosa del proprio attacco al cielo. L’artiglio dell’aquila è per Nietzsche un artiglio maschile, che lacera la luce in modo «netto, deciso, scoperto», a differenza degli artigli felini, retrattili e, dunque, «nascosti, ovattati, ipocriti» [11], ovvero femminili, in quanto terrestri par excellence.

Un esempio illuminante dello sfruttamento della poetica dell’immaginario dell’aria da parte di Nietzsche, e della conversione di questa in risorsa autenticamente filosofica viene offerto dall’analisi di Detlev Brennecke [12] dello sviluppo di un’immagine annotata a Nizza nella primavera del 1884: «,Geradezu stoßen die Adler’ Olof Haraldssons Saga» [13].

Nella trasformazione che subisce questa immagine si palesa magnificamente il lavoro di Nietzsche artista della parola che penetra il senso della metafora e lo riallinea alla propria poetica ascensionale. Per la seconda volta negli scritti di Nietzsche l’immagine delle «aquile che attaccano diritto» riappare nell’autunno del 1884 in un frammento dal significativo titolo “Schafe”14:

,,Den Adler seht! sehnsuchtig starr

blickt er hinab in den Abgrund,
in seinem Abgrund, der sich dort

in immer tiefere Tiefen ringelt!

Plötzlich, geraden Flugs,

scharfen Zugs
stürzt er auf seine Beute.

[…]” [15].

Successivamente questi elementi dell’immagine vengono ripresi in una annotazione di poco successiva:

,,Solche macht man die Gründen mißtraurisch; aber mit erhabenen Ge- bärden überzeugt man sie.
[…]

– geraden Flugs und Zugs, gleich stoßenden Adlern” [16].

Non molto più tardi in un nuovo frammento ritroviamo la medesima immagine:

,,Der Wahrheit Freier du? – so höhnten sie – Nein! Nur ein Zauberer! Ein Thier, ein listiges, raubendes, schleichendes […].

Oder dem Adler gleich, der lange starr in Abgründe blickt, in seine Ab- gründe, die sich hinab in immer tiefere Tiefen ringeln,

dann, plötzlich, geraden Zugs, gezückten Flugs, hinab auf Lämmer sto- ßen, jach hinab, heißhungrig, gram alle Lammsseelen und was nur blickt mit schafmäßigem krauswolligem Lämmer-Wohlwollen:

– also adlerhaft, panterhaft sind des Zauberers Sehnsüchte, sind deine Sehnsüchte unter tausend Larven, du Narr! du Dichter!” [17].

In questa versione si ritrova nel «Lied der Schwermuth» nella quarta parte de Also sprach Zarathustra, nella quale il vecchio mago ode le parole delle maligne occhiate ardenti del sole:

,,Der Wahrheit Freier? Du? – so hönten sie – Nein! Nur ein Dichter!
Ein Thier, ein listiges, raubendes, schleichendes

[…]
Oder, dem Adler gleich, der lange,
Lange starr in Abgründe blickt,
In seine Abgründe: – –
Oh wie sie sich hier hinab,
Hinunter, hinein,
In immer tiefere Tiefen ringeln! –
Dann,
Plötzlich, geraden Zugs,
Gezückten Flugs,
auf Lämmer stossen,
Jach hinab, heisshungrig,
nach Lämmern lüstern,
Gram allen Lamms-Seelen,
Grimmig-gram Allem, was blickt Schafmässig, lammäugig, krauswollig, Grau, mit Lamms-Schafs-Wohlwollen!
Also
Adlerhaft, panterhaft
Sind des Dichters Sehnsüchte,
Sind deine Sehnsüchte unter tausend Larven, Du Narr! Du Dichter!” [18].

Infine la citazione si ripropone nell’inverno 1885/86 sotto forma di proverbio, con una fondamentale chiosa di Nietzsche:

«,Geradezu stoßen die Adler.’ – Die Vornehmheit der Seele ist nicht am wenigsten an der prachtvollen und stolzen Dummheit zu erkennen, mit der sie angreift – , geradezu’» [19].

Inizialmente, dunque, l’immagine dell’aquila che attacca diritto vive ancora vagamente nella prima variazione, sia per l’espunzione del verbo «stoßen», sia perché gli elementi fondamentali del quadro metaforico si sono dissolti nel ritmo della composizione, come nel caso del distanziamento tra «geraden Flugs, /scharfen Zugs», nel quale il motto non pare più adatto ad incarnare la condotta dei «nobili Germani». Nella successiva occorrenza al verbo dissonante «stürzen» si sostituisce il più idoneo «stoßen» ed anche lo iato tra «gerade» e «zu» si va attenuando, ricompattandosi progressivamente, così, sia sintatticamente, sia lessicalmente rispetto alla versione della saga, fino alla sua ripresa del frammento dell’inverno 1885/86.

Originariamente questa citazione appartiene ad una versione della saga che il dotto islandese Snorri Sturluson negli anni Venti del XIII secolo utilizzò come nucleo centrale della sua storia dei reali norvegese Heimskringla. In lingua protonordica il proverbio recitava «Qndverðir skulu ernir klóask», ovvero «Viso a viso con gli artigli devono combattersi le aquile», mettendo in luce, attraverso questa provocatoria esortazione, come il valoroso non scansi il pericolo, non vi fugga dinanzi.

Non solo però la saga norvegese non verrà tradotta in tedesco che tra il 1922 e il 1923 da Felix Niedner, ma nel frammento, inoltre, Nietzsche utilizza la dicitura «Olof», anziché «Olaf», rara quanto inusuale; in aggiunta a queste evidenze la traduzione stessa dal nordico antico non corrisponde, come abbiamo avuto modo di vedere: «geradezu» risulta fuorviante nella misura in cui depistò l’immaginazione di Nietzsche e lo stesso verbo «stoßen» partecipa di questo dirottamento di significante verso la verticale rapacità, offrendosi in tedesco, nella versione dei Grimm, sub voce «stoszen», connotato nel senso von der charakteristischen art der raubvögel, aus der luft herunterschieszend, ihre beute zu greifen [20]. Parrebbe in tal modo essere accreditata l’opinione del germanista di Basilea Andreas Heusler, che si rammaricava del mancato incontro di Nietzsche con le saghe islandesi, giacché queste gli avrebbero fornito materiale preziosissimo per il suo programma filosofico:

«Was hätte ihm die Menge der geschichtlichen Sagas bieten können! Sie waren imstande, seiner ,Herrenmoral’, seinem ,Wille zur Macht’, seinem ,Übermenschen’ Blut einzuflößen! – Sie scheinen ihm nicht in den Weg gekommen zu sein» [21].

Pur se come vedremo questa analisi andrà rivista, essa coglie tuttavia la necessità nietzscheana di animare i concetti filosofici grazie alla potenza vivificante della metafora, per configurare i filosofemi fondamentali infondendo in essi la materiale e dinamica vitalità poetica, di rendere risorsa per il pensiero l’energia dell’immaginazione. Questo connubio profondo tra le dimensioni letteraria e filosofica esibisce l’elemento che sedusse Nietzsche a ricercare nel motto un tratto distintivo del presunto portamento spirituale del prototipo della «Herrenmoral». Nel 1884 Nietzsche, in particolar modo assorbito dallo studio dell’influsso del cristianesimo sui popoli e le razze non battezzati, frequenta, infatti, l’opera Wikingszüge, Staatsverfassung und Sitten der alten Scandinaven di Anders Magnus Strinnholm [22], nella quale si trova la traduzione del proverbio, come attesta una annotazione del 1884:

«Wikingszüge, Staatsverfassung und Sitten der alten Skandinaver. Von Stinnholm. Übers(etztung) v(on) Frisch. (Hamburg, Berthes 1879)» [23].

La distorsione dell’immagine attraverso le variazioni testuali fu prodotta dalla traduzione incongruente dall’originario protonordico allo svedese e da questo al tedesco prima dallo stesso Strinnholm e poi dal suo traduttore Frisch. Dato che il primo modificò klóask (battersi con gli artigli) con lo svedese arcaizzante spännas (avvinghiarsi) il secondo ebbe mano libera nel tradurre incurante spennask con il tedesco stoßen nell’accezione del tipico assalto dei rapaci. In questa versione si offrì, dunque, a Nietzsche l’immagine che il suo «sensorio metaforofilo» intercettò, e nella quale trasfuse l’appannaggio del nobile Geisteshaltung dei Germani, condensato nella traduzione letterale che ne fornisce Detlef Brennecke, nell’opera Wikingszüge:

«Sopra ogni cosa fu considerato con disprezzo ed aborrito, tutto ciò che mostrasse malignità, viltà, meschinità, bassezza d’animo; si volle vedere nel bene come nel male intrepida schiettezza e virilità dell’indole, grandezza e forza nell’agire e nel fare. ,Di petto’, si diceva, ‘devono avvinghiarsi le aquile’» [24].

Attraverso l’elaborazione stilistica che abbiamo passato in rassegna il significato originario della citazione viene riorientato da Nietzsche nella proprio rimaneggiamento del 1885/86 dall’orizzontalità della verace volontà di difendersi all’aggressiva verticalità dell’attacco, ed il significato peculiare del proverbio, e, dunque, l’essenza dell’azione, vengono risospinti sullo sfondo, mentre in primo piano avanza la modalità della sua conduzione, nella fattispecie la sua frontalità, il suo essere diritto e diretto, immediato e non mediato, subitaneo e non rimosso.

Questa immagine palesa come accanto allo sviluppo di una teoria evolutiva e una morfologia della volontà di potenza, sia altrettanto necessario lasciar emergere la rilevanza di una metaforologia della volontà di potenza attraverso la messa in risalto della scelta stilistica di Nietzsche di affidare agli uccelli da preda da un lato, ed agli ovini dall’altro, il ruolo di simbolizzazioni dell’ineludibile idiosincrasia fisiologica, psicologica e, dunque morale, e poi politica, tra il contegno che distingue gli attivi dai reattivi, coloro che assaltano da coloro che fuggono, coloro che espongono orgogliosamente la loro natura in campo aperto da coloro che mimetizzano la loro individualità nell’indistinto della greggia.

Nell’opera in cui si compie il definitivo e decisivo distacco dagli psicologi inglesi e con questi principalmente da Paul Rée, Nietzsche consacrerà attingendo alle concrezioni dell’immaginazione dinamica i lineamenti di una sociogenesi centrata precipuamente sull’originaria ed insanabile idiosincrasia all’interno del genere umano stesso generata dalla paura: «La paura è la potenza dalla quale è mantenuto la comunità» [25]. Questo ancestrale moto dell’animo, retaggio dell’orrore preistorico degli uomini esposti all’ostilità dell’ambiente produce due «moralità animali» massimamente divergenti, ed altrettanto contrastanti portamenti, quello dell’individuo e quello della comunità, come mette nitidamente in luce Maria Cristina Fornari:

«Non solo l’eredità del nostro rapporto originario con la natura, che fu interpretata come spaventosa e ostile, spiega la nostra inclinazione alla paura, ma anche la nostra conformazione fisiologica è responsabile del fatto che l’elemento della società percepito come rassicurante sia in noi molto più fortemente marcato rispetto a tutta la velleità individuale» [26].

La presenza dell’altro, dell’animale ostile è il presupposto per la comprensione dell’istinto del gregge, che eleva il sentimento a legge morale:

«Non l’azione altruistica è (mediante l’oblio) nata ereditariamente, bensì il continuo pensare agli altri come metro delle nostre azioni» [27].

La radice della debolezza si manifesta nell’impossibilità di definirsi a partire da se stessi, nel dover individuare e riplasmare un prototipo che una volta raffigurato e sfigurato possa fornire un raffronto congruente con le proprie esigenze e limitazioni e come Nietzsche mette magistralmente in scena sempre più compiutamente nel 1887, nel mirabile apologo de Zur Genealogie der Moral del XIII capitolo della prima dissertazione:

«Che gli agnelli nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non sorprende: solo che non v’è in ciò alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli rapaci di impadronirsi degli agnellini. E se gli agnelli si vanno dicendo tra loro: «questi rapaci sono malvagi; e chi è il meno possibile uccello rapace, anzi il suo opposto, un agnello, non dovrebbe forse essere buono?» su questa maniera di erigere un ideale non ci sarebbe nulla da ridire; salvo il fatto che gli uccelli rapaci guarderanno a tutto ciò con un certo scherno e si diranno forse: «Con loro non ce l’abbiamo affatto noi, con questi buoni agnelli; addirittura li amiamo: nulla è più saporito di un tenero agnello» [28].

Il fondamento della morale del gregge non è il sentimento altruistico del mutuo soccorso, ma il risultato della coagulazione del gruppo in ragione del pericolo comune; non il disinteresse, dunque, regola la convivenza sociale, ma la necessità di proteggersi dalla feroce supremazia dei nemici; in questo senso la moralità ha un’origine animale, certo non giacché la società animale possa essere considerata una prefigurazione meno evoluta della diligente ed amorevole società umana, la quale risulta, piuttosto, essere il campo di battaglia nel quale si prendono contromosse per poter vivere in comunità e di essa non perire:

«Quella moralità che ognuno esige nella maniera più rigida, onora e chiama santa, il fondamento della vita sociale: cos’è dunque se non quella contraffazione, che gli uomini necessitano, per poter vivere l’un con l’altro? La parte più grande di questa contraffazione è già trasformata in carne sangue e muscoli, non la sentiamo più come contraffazione, così poco pensiamo alla contraffazione nei saluti e nelle espressioni cortesi: cosa che ciononostante sono» [29].

Simulazione ed ipocrisia, camaleontismo e tartuferia, ma anche nascondimento, laddove l’uomo morale si adatta all’ambiente sociale per evitare con astuzia veracemente animale le vessazioni e le pressioni dell’ambiente, nascondendo la propria individualità inabissandosi nel collettivo per ottenere un brano di sicurezza:

«Rappresentarsi che cosa un altro provi se facciamo questa o quella cosa – dunque calcolare il nostro vantaggio o svantaggio procurato a un altro con la nostra azione – questo nel regno animale è insegnato con l’esercizio nei mezzi di offesa e di difesa. Rappresentarsi l’effetto su di un altro e fare qualcosa per via dell’altro – la più grande scuola della conoscenza! A ciò meno di tutto ha condotto la compassione istintiva, sì invece la paura e la sua fantasia: e il suo risultato è stato accettato dalla fame (in quanto esito dell’attacco contro un’altro essere). Bisogna capire qual è lo stato d’animo altrui dal suo atteggiamento, se vuole fuggire o attaccare, ecc. – senza la massima tensione dell’intelletto, determinata dalla necessità, non lo si sarebbe mai imparato» [30].

Questa istanza adattiva viene rintracciata da Nietzsche nelle teorie a lui contemporanee come l’adattamento di Spencer, l’organismo sociale di Fouillées, la coscienza di Espinas, che non si rivelano essere altro che forme di mimicry, attraverso la quale l’individuo, dal punto di vista morale, abiura la propria misura del valore, dissolvendosi in un punto di vista di genere, prima ancora che generale, comunque inutile ed infruttuoso. La società contemporanea propone dunque un falso concetto di armonia e pace, nel quale si valorizza il diluirsi dell’individualità in quanto funzione del tutto, così da contrastare le spinte centrifughe. Massimamente la cultura affaristica esibisce questa dinamica stabilendo inverosimili equivalenze basate sul valore di scambio in relazione al bisogno di scurezza di una società i cui membri somigliano, secondo l’immagine di Alexis de Toqueville, ai granelli di sabbia della spiaggia: morbidi, rotondi, innumerevoli e che soprattutto non aderiscono l’un l’altro. In questo contesto il pericolo della democrazia paventato da Toqueville, e concordemente da Nietzsche, è che questa non garantisca un surplus di libertà, ma di troppo accondiscendente docilità; non ingeneri l’anarchia, ma il servilismo; non il cambiamento troppo repentino, ma un irrigidimento cinese, ovvero il prodotto di una specie d’uomo che rifugge lo spazio aereo vitale per la propria individualità, e che al contrario si rende riconoscibile giacché «la sua anima svillaneggia, il suo spirito ama cantucci nascosti, vie traverse, porte segrete, tutto quel che se ne sta occultato lo incanta quasi fosse quello il suo mondo, la sua sicurezza, il suo refrigerio; sa bene, lui, cosa sia il tacere, il non obliare, l’aspettare, il momentaneo farsi piccini, farsi umili. Una razza di siffatti uomini del ressentiment finirà necessariamente per essere più accorta di qualsiasi razza aristocratica,, onorerà altresì l’accortezza in tutt’altra misura, vale a dire come un condizionamento esistenziale di prim’ordine, […]» [31].

All’opposto la stolida nobiltà della natura rapace aborre il calcolo e il differimento dei propri moti, giungendo orgogliosa alla dissipazione e all’autoannientamento pur di lasciar che «la forza si manifesti come tale»:

«mentre negli uomini nobili l’accortezza ha facilmente con sé anche un sottile sapore di lusso e di raffinatezza – tra loro appunto di gran lunga essa non è così essenziale come la perfetta sicurezza funzionale degli inconsci istinti regolatori, o come addirittura una certa mancanza di accortezza, quale potrebbe essere il coraggioso gettarsi allo sbaraglio sia contro il pericolo, sia contro il nemico, o quella stravagante repentinità di collera, d’amore, di venerazione, di gratitudine e di vendetta, in cui in ogni tempo si sono riconosciute le anime nobili» [32].

Riecheggia in queste espressioni la necessaria leggerezza propria delle nature aeree, la noncuranza per tutto ciò che non esalti la libertà delle loro evoluzioni e il vezzeggiarsi della propria elezione, per ogni zavorra, sia pure essa il pensiero delle conseguenze, degli effetti, dei ricordi:

«Questa ‘audacia’ di nobili razze, folle, assurda, improvvisa, il modo in cui essa si estrinseca, l’imprevedibilità, la stessa inverosimiglianza delle loro imprese – Pericle mette segnatamente in rilievo la rhathymia degli ateniesi, – la loro indifferenza e il loro disprezzo per la sicurezza, il corpo, la vita, gli agi, […]» [33].

Nella visione di Nietzsche si palesa dunque un terribile chiasmo nel quale, da un lato, le nature nobili, di elevato sentire che non cercano mediazioni, che non rimuovono le loro reazioni, ma danno libero impulso ai loro istinti, proprio per questa forza periscono e divengono vulnerabili; dall’altro lato coloro che non sono stati dotati di una complessione potente ed affermatrice hanno sviluppato, attraverso l’intelletto, un’astuzia mimetica e calcolatrice che garantisce loro la conservazione, pur se a spese del perfezionamento della specie nella famosa, quanto famigerata, lotta per l’esistenza, come emerge dall’aforisma dall’esplicito titolo Anti-Darwin:

«Ma posto che tale lotta esista – e in realtà essa si verifica -, questa purtroppo si risolve tutto all’opposto di quel che si augura la scuola di Darwin e di quel che forse sarebbe lecito augurarci insieme ad essa: si conclude cioè a svantaggio del forte, del privilegiato, delle felici eccezioni. Le specie non crescono nella perfezione: i deboli tornano sempre di nuovo a soverchiare i forti – ecco quel che succede, essi sono in gran numero, sono anche i più accorti… Darwin ha dimenticato lo spirito (questo è inglese!) lo spirito, i deboli hanno più spirito… Si deve sentire la necessità dello spirito per avere spirito – lo si perde se non se ne ha più bisogno. Chi ha la forza si sbarazza dello spirito […]» [34].

Diviene in conclusione possibile esplicitare più perspicuamente il significato della stupidità che Nietzsche attribuisce all’essere diretti delle nature nobili attraverso la figurazione della picchiata del rapace precisamente in raffronto all’origine dello spirito, dell’astuzia camaleontica, della cosiddetta virtù, che altro non sono che distillati della debolezza:

«Come si vede, per spirito io intendo la cautela, la pazienza, l’astuzia, la simulazione, il grande dominio di se stessi e tutto quel che è mimicry (a quest’ultima appartiene gran parte della cosiddetta virtù)» [35].

L’aria consacra nella sua trasparenza la virtù aristocratica della fiera incapacità di dissimulare la propria natura elevata, sino all’esiziale vulnerabilità a cui sventatamente si espone l’anima nobile nel solcare solitaria la patria leggera della propria libertà.

Note

1. G. Bachelard, Psicanalisi dell’aria, trad. it. di M. Cohen Hemsi, Red Edizioni, Milano, 2007, in particolare il cap. «Nietzsche e lo psichismo ascensionale», pp. 130-170.

2. Ivi, p. 130.

3. Ivi, p. 140.

4. Ibidem.

5. F.W. Nietzsche, Ecce Homo, af. 3, in Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana condotta sul testo critico originale stabilito da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1970.

6. Ivi, p. 148.

7. Ivi, p. 149.

8. Ivi, p. 158.

9. Ibidem.

10. Ivi, p. 159.

11. Ivi, p. 160.
12. D. Brennecke, ,,Geradezu stoßen die Adler”, Altnordisch bei Nietzsche, in Nietzsche-Studien: Internationales Jahrbuch für die Nietzsche-Forschung, Berlin-New York, 1984, vol. 13, pp. 316-324.
13. KSA 11, p. 10: 25 [4]. Frammenti postumi, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., v. VII, t. 2, p. 10: «’In linea diritta colpiscono le aquile’», saga di Olof Haraldsson».

14. «Pecore».

15. KSA 11, p. 10: 25[4]. Liberamente traduciamo: «L’aquila guardate! Bramosa fisso/ guarda in giù nell’abisso/ nel suo abisso, che là / s’inanella in sempre più profonde profondità!/ D’improvviso, con volo diritto,/ con brusco slancio/ sulla sua preda piomba».

16. KSA 11, p. 333: 29[1]. Frammenti postumi 1884-1885, v. VII, t. 3, p. 3, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit.: «Costoro, li si rende diffidenti con le ragioni; ma con i gesti sublimi li si convince. […] – Con volo e slancio diritto, come piombanti aquile»

17. KSA 11, p. 367: 31[33]. Frammenti postumi 1884-1885, v. VII, t. 3, p. 41, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit.: «Pretendente della verità tu? – schernivano – No! Solo un mago! Un animale, astuto, rapace, insinuante, […] Oppure simile all’aquila, che a lungo fissamente guarda gli abissi, i suoi abissi, che in giù si inanellano in profondità sempre più fonde, poi, d’improvviso, con slancio diritto, con volo convulso, piombare su agnelli, in giù a precipizio, vorace, avverso a tutte le anime d’agnello e a tutto ciò che ha solo l’aspetto di pecora, con il vello ricciuto, col benvolere d’agnello: così di aquila, di pantera sono le bramosie del mago, sono le tue bramosie sotto mille maschere, tu giullare, tu poeta!»

18. KSA 4, p. 371-373. Così parlò Zarathustra, «Il canto della melanconia», in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., v. VI, t. 1: «’Un pretendente della verità sei tu? – dicevano beffarde – /No! Solo un poeta!/ un animale scaltro, predace, sgusciante/ […]/ Oppure come l’aquila, che a lungo/ a lungo fissa i baratri,/ suoi baratri: – -/ Oh, come là in basso si attorcono/ di sotto, dentro,/ in voragini sempre più fonde!/ poi,/ di repente, in diritta discesa,/ con volo vibrante,/ piombare su agnelli,/ di colpo cadere, vorace,/ goloso di agnelli/ e ostile all’anime tutte d’agnello,/ rabbiosamente ostile a sguardi/ di pecora, da occhi d’agnello, da vello ricciuto,/ grigi e dal pecoresco benvolere d’agnello!/ Così/ d’aquila e di pantera/ son del poeta gli aneliti/ sono i tuoi aneliti sotto maschere mille,/ giullare! Poeta!/ […]”».

19. KSA 12, p. 75. Frammenti postumi 1885-1887, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., v. VIII, t. 1, p. 65: «Diritto colpiscono le aquile». La nobiltà dell’anima si può non da ultimo riconoscere dalla magnifica e orgogliosa stupidità con cui essa attacca – «diritto». S. Giametta traduce: «Diritto puntano le aquile».

20. J. Grimm, W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, 16 voll. (in 32 tomi), Leipzig 1854-1960, vol. 19, col. 521.

21. A. Heusler, “Die Herrenethik in der isländischen Saga”, in dem, Germanentum, Heidelberg 1934, pp. 63-77, p. 66. Liberamente traduciamo: «Quanto avrebbe potuto offrirgli la quantità di saghe storiche! Erano in grado di infondere sangue nella sua ‘morale dei signori’, nella sua ‘volontà di potenza’, nel suo ‘superuomo’! Sembrano non essergli incorsi nel cammino».

22. A.M. Strinnholm, Wikingszüge, Staatsverfassung und Sitten der alten Scandinaven, Aus dem Schwedischen von C.F. Frisch, 2 voll. Hamburg 1839-1841.

23. KSA 11, p. 71: 25[217].

24. D. Brennecke, ,,Geradezu stoßen die Adler”, op. cit., p. 323. «Überhaupt wurde alles mit Verachtung angesehen und verabscheut, was von Hinterlist, Feigheit, Gemeinheit, Niedertracht in der Gesinnung zeugte; man wollte im Bösen wie im Guten unverzagte Offenheit und Männlichkeit des Gemüts sehen, Größe und Kraft im Handeln und Treiben. ,Brustlings’, sagte man, ,sollen die Adler sich umschlingen’». Trad. nostra.

25. KSA 9, 3[119]: «Furcht ist die Macht, von welcher der Gemeinwesen erhaltet wird». Trad. nostra.

26. «Nicht nur das Erbe unseres ursprünglichen Verhältnisses zur Natur, die anthropomorphisch als schrecklich und fremd aufgefasst wurde, erklärt unsere Neigung zur Furcht, auch unsere physiologische Ausstattung ist dafür verantwortlich, dass das als beruhigend empfundene element der Gemeinschaft in uns viel stärker ausgepragt ist als alle individuelle Velleität». M.C. Fornari, Die Spur Spencers in Nietzsches ,,moralischem Bergwerke”, in Nietzsche-Studien. Internationales Jahrbuch für die Nietzsche-Forschung, Berlin-New York, vol. 34, pp. 310-328, p. 325. Trad. nostra. Cfr. Morgenröte, 23.

27. Frammenti postumi 1879-1880, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., p. 355. KSA 9, 4[50]: «nicht das unegoistische Handeln ist (durch Vergessen) aus Vererbung entstanden, sondern das forwährende Denken an Andere als Maaß unserer Handlungen”.

28. F.W. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., I, 13. KSA 5, 278: «Dass die Lämmer den grossen Raubvögeln gram sind, das befremdet nicht: nur liegt darin kein Grund, es den grossen Raubvögeln zu verargen, dass sie sich kleine Lämmer holen. Und wenn die Lämmer unter sich sagen „diese Raubvögel sind böse; und wer so wenig als möglich ein Raubvogel ist, vielmehr deren Gegenstück, ein Lamm, — sollte der nicht gut sein?“ so ist an dieser Aufrichtung eines Ideals Nichts auszusetzen, sei es auch, dass die Raubvögel dazu ein wenig spöttisch blicken werden und vielleicht sich sagen: „wir sind ihnen gar nicht gram, diesen guten Lämmern, wir lieben sie sogar: nichts ist schmackhafter als ein zartes Lamm“».

29. Frammenti postumi 1879-1880, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., p. 307-308. KSA 9, 3[23]: «Jene Moralität, welche am allerstrengsten von Jedermann gefordert, geehrt und heilig gesprochen wird, die Grundlage des socialen Lebens: was ist sie denn als jene Verstellung, welche die Menschen nötig haben, um mit einander ohne Furcht leben zu können? Der allergrößte Theil dieser Verstellung ist schon in Fleisch Blut und Muskel übergegangen, wir fühlen es nicht mehr als Verstellung, so wenig wir bei Begrüßungs-worten und höflichen Mienen an Verstellung denken: was sie trotzdem sind».

30. Framenti postumi 1879-1880, v. V, t. 1, p. 402. KSA 9. 4[280]. «Sich vorstellen, was ein anderer empfindet, wenn wir dies oder jenes thun – also den Nutzen oder Nachteil von uns zu berechnen aus dem erschlossenen Nutzen und Nachteil eines Anderen, zu welchem ihn unsere Handlung führt – das ist eingeübt im Tierreich in den Mitteln des Schutzes und des Angriffs. Sich die Wirkung auf einen Anderen vorstellen und um des Anderen willen etwas thun – die größte Schule! der Erkenntniß! Dazu hat am wenigsten das instinktive Mitleid geführt, sondern die Angst und deren Phantasie: und ihr Resultat ist vom Hunger (als Ausgang des Angriffs auf ein anderes Wesen) acceptiert worden. Zu errathen, wie es einem zu Muthe ist, aus seinen Gebärden, ob er fliehen oder angreifen will usw. – ohne die höchste Anspannung des Intelleckts durch die Noth hätte man das nicht gelernt”».

31. F.W. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., I, 10. KSA 5, 270: «Seine Seele schielt; sein Geist liebt Schlupfwinkel, Schleichwege und Hinterthüren, alles Versteckte muthet ihn an als seine Welt, seine Sicherheit, sein Labsal; er versteht sich auf das Schweigen, das Nicht-Vergessen, das Warten, das vorläufige Sich- verkleinern, Sich-demüthigen. Eine Rasse solcher Menschen des Ressentiment wird nothwendig endlich klüger sein als irgend eine vornehme Rasse, sie wird die Klugheit auch in ganz andrem Maasse ehren: nämlich als eine Existenzbedingung ersten Ranges».

32. F.W. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., I. 10. KSA 5, 270: «während die Klugheit bei vornehmen Menschen leicht einen feinen Beigeschmack von Luxus und Raffinement an sich hat: — sie ist eben hier lange nicht so wesentlich, als die vollkommne Funktions-Sicherheit der regulirenden unbewussten Instinkte oder selbst eine gewisse Unklugheit, etwa das tapfre Drauflosgehn, sei es auf die Gefahr, sei es auf den Feind, oder jene schwärmerische Plötzlichkeit von Zorn, Liebe, Ehrfurcht, Dankbarkeit und Rache, an der sich zu allen Zeiten die vornehmen Seelen wiedererkannt haben».

33. F.W. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., I, 11. KSA 5, 274: «Diese „Ku hnheit“ vornehmer Rassen, toll, absurd, plötzlich, wie sie sich äussert, das Unberechenbare, das Unwahrscheinliche selbst ihrer Unternehmungen — Perikles hebt die rhathymia der Athener mit Auszeichnung hervor — ihre Gleichgültigkeit und Verachtung gegen Sicherheit, Leib, Leben, Behagen, […]».

34. F.W. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, ‘Scorribande di un inattuale’, af. 14., in Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., v. VI, t. 3, p. 117. KSA 6,120: «Gesetzt aber, es gibt diesen Kampf – und in der Tat, er kommt vor -, so läuft er leider umgekehrt aus, als die Schule Darwins wünscht, als man vielleicht mit ihr wünschen dürfte: nämlich zu Ungusten der Starken, der Bevorrechtigen, der glücklichen Ausnahmen. Die Gattungen wachsen nicht in Vollkommenheit: die Swachen werden immer wieder über die Starke Herr – das macht, sie sind die große Zahl, sie sind auch klüger […]. Darwin hat den Geist vergessen (das ist englisch!), die Schwachen haben mehr Geist… Man muß Geist nötig haben, um Geist zu bekommen – man verliert ihn, wenn man ihn nicht nötig hat. Wer die Stärke hat, entschlägt sich des Geistes […]».

35. Ibidem. KSA 6, 120: «Ich verstehe unter Geist, wie man sieht, die Vorsicht, die Geduld, die List, die Verstellung, die große Selbstbeherrschung und alles, was mimicry ist (zu letzterem gehört ein großer Teil der sogenannten Tugend)».

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