
L’Accademia di Platone, mosaico dalla Villa di Titus Siminius Stephanus, Pompei
Ben pensare e/o ben dire
La dialettica rappresenta il dostoevskijano “eterno fondo” della filosofia, il vizio oscuro nel quale la speculazione occidentale viene inesorabilmente risospinta nel suo rapporto con la verità e l’alterità.
Il peccato di origine della dialettica, concepita come forma egemone della razionalità e della relazionalità in risposta all’esigenza di senso dalla filosofia dell’occidente, trova nel dialogo, all’incontro tra la conoscenza logica e la ricerca della persuasione, quel territorio liminare, nella duplice accezione di confine e di soglia, in cui la ragione stessa viene ad originarsi come prassi e a costituirsi come teoresi.
Logica e retorica non rappresentano esclusivamente due tensioni ineludibili della dialettica, ma ne incarnano due derive estreme a partire dalle quali si delinaeano eterogenee fisionomie della ragione.
Da un lato, infatti, la matrice logica della conoscenza razionale trova nel dialogo il luogo della propria emersione, nell’attingere dall’esercizio dialettico, in particolare nel metodo diairetico, le proprie procedure di esclusione, ed inaugura, così, in esso, una visione rigidamente categorializzata del rapporto tra realtà e linguaggio: nel dialogo socratico, compiutosi in quello platonico sino alla specifità del genere filosofico, l’assenso ai guadagni della speculazione viene estorto attraverso la cogenza del metodo dialettico, nel quale si manifesta la struttura di una realtà la cui essenza, pur nel suo palesarsi esanime ed esangue in quanto spogliata dei tratti propri del divenire vitale, è pur sempre correttamente attingibile.
La ragione, dunque, nella domanda destinale che anima la conoscenza nella forma della logica, “che cosa è la ragione?”, si presenta come processo, normato da regole e da principi, sino alla determinazione univoca dei modelli e delle procedure di pensiero.
Dall’altro lato la retorica rimanda, al contrario, al carattere ludico del ragionamento sofistico e dialettico, da cui discende che per chiunque sia sofista o retore è norma non l’amore della verità, ma il personalissimo e individuale “avere ragione”. È il contegno arcaico della gara che la anima: in essa emerge il punto di vista agonistico del filosofo, nel quale la dialettica viene ricondotta alla sua sfera primordiale e originaria, radicata nella cultura primitiva.
Ragione, dunque, come possesso, laddove l’interrogativo che incendia l’agone dialettico, “chi ha ragione?”, conduce alla decettiva disgregazione di ogni contenuto e schema argomentativo condivisibile, nella quale è accettabile anche lo scacco di un possibile esito nichilista, pur se conduce alla confutazione dell’avversario.
Nessuna regola per il pensiero: dialettica e/o ermeneutica
Queste dimensioni, logica e retorica, rappresentano la polarità essenziale a delineare la natura bicipite dell’arte del dialogo: distanti nelle proprie ascendenze, si ritrovano, però, accomunate nell’istanza di dominio che caratterizza essenzialmente entrambe.
La logica obliterando la dimensione specifica del dialogo, in quanto modo originario dell’accadere del linguaggio tra due persone che sono l’uno per l’altro alterità, giunge a negare la rilevanza del sé irripetibile, deprimendo la dimensione diacronica del dialogo, il suo essere essenzialmente innervato da una struttura temporale e quindi eminentemente storica, che nel suo dispiegarsi esige apertura alla possibilità creativa insita nella razionalità dialettica.
La retorica d’altro canto, asservendo ai propri fini i mezzi espressivi, oratori o forensi, resi efficaci dalla strutturale passibilità dell’essere umano rispetto agli effetti del linguaggio, latenti e surrettizii, nega la dimensione di gratuità attiva, di dono, che rappresenta l’apertura di senso attraverso la quale il dialogo si configura come richiamo alla responsabilità e alla tolleranza.
Il dialogo, dunque, non può essere compreso come discorso in cui la forma della comunicazione è contrassegnata esclusivamente dall’argomentazione o, dall’altro lato, come un gioco a scacchi aperto, definito solo in base al significato attribuito alle espressioni, poichè queste prospettive deprimono l’arte del dialogo alla sola dimensione tecnica: tecnica del ben pensare o del ben dire.
L’arte del dialogo necessita, diversamente, di manifestarsi come accadimento d’esserci tra persone: per questo per esso vale il principio per cui nessuna regola logica o linguistica può mai avere un valore più alto della regola del dialogo, che esprime la volontà morale di capire gli altri e di rendersi comprensibili agli altri.
La ragione dialogica rifiutando, quindi, la riduzione dell’accadere del dialogo ad un linguaggio di tutti i linguaggi, sia di natura idealistico-trascendentale che semantica, si converte in una ermeneutica del “realissimo esser parlato del linguaggio”.
Questa forma della ragione non prescindendo dal singolo parlante, non presuppone dunque nemmeno illusoriamente l’eventualità della comprensibilità totale di sé o dell’altro, radicandosi nella consapevolezza dell’inattingibilità dell’alterità originaria che è il motivo fondante del parlare come esprimersi, ovvero dell’atto originario della ragione nella sua dimensione storica.
Pensiero dialogico e terzietà della ragione
Nella relazione dialogica si instaura tra i parlanti un accadere nel quale rivive il significato prefilosofico di “ponderare qualcosa”, ovvero di quell’omerico dialegomai (διαλέγομαι), che in quanto interpellazione problematica presuppone che ci si trovi in un rapporto aperto che può anche mettere in gioco il destino personale.
Il nesso fondante con il tempo chiarisce anche in quale accezione la dimensione diacronica caratterizzi l’essenza del pensiero dialogico, nel quale evento e vissuto tendono a coincidere: l’intenzionalità di ciascun parlante si incrocia con l’intenzionalità altrui; si potrebbe dire che ritirando costantemente il proprio “aver di mira” il parlare, in questo ambito, sia in realtà fondato su un ascoltare.
Nel dialogo la ragione si manifesta nella sua forma estrema in quanto ascolto e relazione con l’inaggirabile dignità dell’altro: colui che si trova inserito nel dialogo è assegnato a se stesso nel mondo, e, da questa radice, discende che per gli esseri umani finiti, per i quali nel dialogo ne va in ogni caso della verità, questo accadimento, il dialogo, è per principio non terminabile. Non nel senso esclusivamente fatalista che vuole che la dialettica debba produrre un continuo slittamento di senso in un processo senza fondamento di proliferazione di significati sempre nuovi, ma nel senso di un inestinguibile bisogno di senso che i parlanti a causa della loro esposizione al limite del tempo mortale originariamente esigono.
Terzietà della ragione, dunque, come la possibilità della comprensione, nel significato che la versione di volta in volta elaborata della verità di ragione non possa essere né processabile né posseduta dai parlanti, che al contrario delineano nell’arte del dialogo i limiti stessi della ragione: il dialogo rappresenta, infatti, sia un evento di rottura nel quale la storia degli individui accade nella libertà, sia un evento creativo in cui la ragione si manifesta e si rinnova.
Solo nel dialogo garantito dalla terzietà della ragione i parlanti dettandosi le condizioni della comprensione, senza la presunzione della neutralità o dell’imparzialità, si sperimentano come protagonisti e autori della propria creazione di senso. La dialettica diviene, così, lo strumento poietico dell’autarchica e responsabile sovranità di sviluppare una prospettiva pienamente soddisfacente e condivisibile rispetto all’esigenza vitale di senso, che preservi dall’accettazione di un ripiegamento autistico su di un senso eteronomamente assunto o narcisisticamente incondivisibile.
La fiducia nella ragione dialogico-ermeneutica, infine, permettendo agli uomini di orientarsi nel pensare e nell’agire e, dispiegando consapevolmente l’alternativa tra una razionalità autistica ovvero una razionalità autarchica, consente che nella dialettica si inverino genuinamente creazione, narrazione e interpretazione in modo che la rappresentazione dell’identità di ciascuno si elevi nel dialogo dalla linearità logica e dalla superfice retorica, per aprirsi al volume della scrittura.
Riferimenti
G. Calogero, Nessuna regola per il pensiero, in AA.VV., Thinking and Meaning, Louvain-Paris 1963, p. 181.
M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Torino 1993.
I. Kant, Cosa significa orientarsi nel pensare?, tr. it a cura di P. Grillenzoni, Milano 1995.
B. Casper, s.v. Dialogo, in Enciclopedia Filosofica, Milano 2006.