“Cos’è l’uomo?” H.-G. Gadamer, 1944

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Nel settembre del 1944 si concludeva con il numero 5041 l’attività editoriale il più antico periodico illustrato di Germania e terzo ad apparire in Europa nel 1843 dopo The Illustrated London News e L’Illustration di Parigi: l’Illustrirte Zeitung di Lipsia. Nel dicembre del 1944 veniva pubblicata e distribuita esclusivamente all’estero un’edizione speciale dell’Illustrirte Zeitung dal titolo Der europeische Mensch, nella quale a pagina 31 si trova un articolo di Hans-Georg Gadamer, allora quarantaquattrenne professore dell’Università di Lipsia, dal titolo “Was ist der Mensch?“.Il testo qui tradotto non risulta inserito in H.G. Gadamer Gesammelte Werke (Tübingen 1985-), né preso in considerazione nell’opera di Teresa Orozco Platonische Gewalt – Gadamers politische Hermeneutik der NS-Zeit (Hamburg 1995), né nel numero de Internationale Zeitschrift für Philosophie (2001, 1) dedicato al tema Hermeneutik und Politik in Deutschland vor und nach 1933; risulta solo citato in nota nel volume Philosophie und Zeitgeist im Nationalsozialismus (Würzburg c2006, pag. 328) e brevemente presentato in Die deutsche Universitätsphilosophie in der Weimarer Republik und im Dritten Reich (Berlin 2002, pagg. 1125-1127).

Per una ricostruzione storico-teoretica del “caso Gadamer” si rimanda all’intervento di Angelo Bolaffi Non-Verità e Metodo (Micromega, 5/2001, pagg. 271-281).

Immagini da copia privata.

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Pare appartenere al caratteristico essere dell’uomo che egli ponga la domanda sul proprio essere e sulla propria essenza. Nessun ente del resto si rapporta a se stesso in modo tale che non semplicemente sussista bensì, come sensatamente diciamo, che “conduca” la propria vita. Che noi si conduca la nostra vita, non significa soltanto che tra gli uomini si diano differenti modi di realizzazione e di condotta di vita.Questo si potrebbe dire sensatamente anche di una specie animale, quando si considerasse la varietà delle condizioni di vita dei suoi singoli esemplari. Il singolo uomo non è mai, però, un mero singolo esemplare della propria specie. È un individuo irripetibile e insostituibile. Come egli conduca la propria vita, così è egli stesso. Appartiene quindi alla caratteristica essenza della vita umana che le forme della nostra condotta di vita siano da noi scelte. Ogni scelta avviene in considerazione di ciò che sia da preferirsi. La scelta della condotta di vita è tuttavia una scelta che include uno sguardo preliminare sulla totalità della vita. Ne consegue che tutte le forme di condotta della vita umana siano già risposte alla domanda sull’essere dell’uomo o da tali risposte scaturiscano.

Di fatto vediamo chiaramente presso tutti i popoli della terra come essi abbiano una rappresentazione della totalità della vita. Si tratta delle esperienze religiose fondamentali che si condensano in creazioni mitiche. Conoscere gli dei significa sempre conoscere l’uomo per come si situi nella totalità della sua esistenza. A tutte le esperienze religiose appartengono rappresentazioni sulla morte e sull’essere dell’uomo dopo la morte. Anche l’uomo occidentale comincia con risposte mitiche alla domanda sul proprio essere. L’Occidente cristiano ha collegato la propria concezione della vita umana al mito della creazione e della caduta. Gli sforzi e il lavoro della vita umana trovano fondamento su questo mito veterotestamentario della colpa originaria del rinnegamento della volontà di Dio e si riferiscono ad una promessa che annuncia un ritorno nel paradiso perduto in virtù della grazia. La considerazione di sé stesso dell’uomo che emerge da questa raffigurazione mitica, viene quindi definita dalla coscienza della perdita di una propria superiore condizione d’essere. Nell’umiliazione totale l’uomo conserva, però, una conoscenza della sua origine divina e con essa un’immagine della propria essenza: egli è creato ad immagine di Dio.

È però diventato decisivo per il destino dell’uomo occidentale e per il suo sapere su sé stesso, che questa determinante esperienza religiosa si sia mutata in una esplicita domanda dell’uomo sul proprio essere o, più precisamente, con essa si sia fusa. La filosofia interpreta la risposta religiosa.

La filosofia è una creazione dei greci. In greco si è pensato sin da principio cosa sia l’uomo: un essere che possiede ragione, un animal rationale. Cosa significa questa risposta? Come è possibile che questa si si sia fusa con la risposta religiosa che il cristianesimo ha offerto all’Occidente? Queste due modalità di rappresentazione appaiono difficilmente conciliabili tra loro. Quella dell’essere rinnegato da Dio, che con lui attraverso la propria forza non può trovare alcuna riconciliazione, è una rappresentazione che pare opporsi alla rappresentazione greca della razionalità dell’uomo. Certamente anche al fondo della rappresentazione dell’essenza razionale dell’uomo si trova una concezione religiosa, una concezione di Dio. Ma la ragione è il divino stesso nell’uomo. Seguirla, svilupparla e renderla efficace sta a significare l’elevazione dell’uomo a una modalità d’essere divina. Platone l’ha così espressa: la filosofia si sforza, per quanto possibile, di rendere l’uomo immortale, ciò significa, però, equipararlo all’essere di un dio immortale. Attraverso sé stesso l’uomo riesce ad innalzarsi sopra sé stesso, attraverso la contemplazione razionale dell’essere vero. Il saggio basta a sé stesso. È autarchico.

Questa è in effetti una estrema opposizione alla coscienza cristiana dell’esistenza, che è pervasa dalla difettività dell’uomo, dalla sua insufficienza, e che si riconosce bisognosa della grazia divina. Tuttavia la tradizione della fede cristiana, si è strettamente legata nei secoli dell’antichità passata alla filosofia greca e su queste fondamenta riposa tutto il sapere dell’uomo occidentale su sé stesso. Un grande storico della Chiesa, senza piena ragione ma non di meno non senza fondamento, ha chiamato Agostino il primo uomo moderno dell’Occidente. Si tratta di un contributo all’autocompresione dell’uomo occidentale quando egli si chiede come questa unione di spirito greco e fede cristiana sia divenuta possibile. Da entrambe le parti si trova ciò che accomuna, nella tradizione cristiana del pensiero dell’Imago dei, dell’essere l’uomo ad immagine di Dio, nel pensiero greco un sapere stesso che proviene da un’origine religiosa sulla fragilità dell’essere umano e dell’esser oppresso dello spirito dalla materia. La filosofia greca ha in senso eminente assorbito e interpretato il mondo della rappresentazione religiosa della prima grecità. Nelle sue figure più influenti essa non è stata un illuminismo nemico della tradizione, bensì un accompagnamento razionale e una conversione del mito. In particolare i movimenti del VII e VI secolo, che denominiamo orfico-pitagorici, hanno subito una diretta trasposizione nel pensiero. Questa esperienza religiosa è a conoscenza della caducità e della debolezza dell’essere dell’uomo.

“Esseri della durata d’un giorno! / Che cosa siamo? / Che cosa non siamo? / Sogno di un’ombra / è l’uomo”. Così cantava Pindaro. Il corpo è la tomba dell’anima. Liberarci dai lacci del corpo è lo scopo della vita filosofica. Così hanno pensato i pitagorici e il Socrate platonico che li ha seguiti. Il divino della ragione non è libero ed efficace nella vita umana. Persino nella più alta elevazione, secondo la concezione filosofica, solamente per attimi si raggiunge il modo d’essere degli dei. Così si risveglia nel mezzo della vita greca una forma di religione della salvezza che ha preparato il terreno al sopraggiungere del cristianesimo. Attraverso “le profezie che colgono lungi” di Friedrich Hölderlin questa connessione è stata esaltata nella coscienza moderna. Dioniso e Cristo sono della stessa discendenza e hanno il medesimo significato.

D’altro canto il pensiero dell’essere ad immagine di Dio, che si ritrova nel pensiero cristiano della creazione, non sarebbe stato affatto pensato senza la filosofia greca ed in particolare senza la dottrina platonica dell’apparenza e dell’essere, della copia e del modello.

La convinzione che l’uomo sia un essere razionale non significa quindi necessariamente un’opposizione alla fede nella sua creaturalità. La ragione stessa implica un riferimento ad una più alta e più pura ragione. L’uomo si vede limitato ed in relazione ad un essere spirituale illimitato. Questa è la sintesi del pensiero greco con la tradizione cristiana che ha formato l’uomo medioevale. Tutti i popoli d’Europa hanno tratto vita da essa.

Con l’inizio dell’età moderna sorge un movimento che tenta di liquidare questa immagine dell’uomo dello spirito greco-cristiano. Un movimento che si avvicina ancora una volta alle origini greche. Chiamiamo in effetti l’inizio di questo movimento Rinascimento, ovvero la rinascita dell’antichità classica. Culturalmente la sua forma d’esistenza è l’umanesimo, una scoperta dell’uomo in un senso nuovo. I pensieri greci divengono nuovamente vitali e il concetto di cultura, che i greci avevano plasmato, riempie l’autocoscienza dell’uomo con una risonanza infinita. Il pensiero cristiano del peccato e della grazia non lega più così totalmente al punto che l’autocoscienza dell’uomo non cerchi nell’ambito mondano una autonomo compimento. Così figure del mito antico, che sono collegate alle grandi imprese culturali dell’uomo, guadagnano nuova potenza simbolica, come ad esempio l’antico mito di Eracle. Questo figlio di dio vive una vita di sforzi e di lavoro perseguitato dall’ira di Era, la consorte del re degli dei. Ovunque vada uccide mostri, eliminando in tal modo l’inquietante essenza di un selvaggio mondo primordiale. Egli diviene il grande purificatore, che porta a compimento un mondo di ordine e sicurezza umano. In questo mito si rispecchia l’autocoscienza dell’uomo creatore di cultura. Gli antichi racconti tradizionali e le allegorie filosofiche hanno trasformato proprio questo antico mito nell’espressione sensibile di una nuova autocoscienza moralmente fondata. Eracle diviene l’eroe della virtù. Egli assume la vita del lavoro e dello sforzo come scelta libera poiché scarta la via del piacere: così lo si è presentato al bivio, allorché rigetta i piaceri sensibili e percorre la via della virtù.

Ancora un altro mito di origine antica guadagna nei secoli successivi potenza e rafforza questa nuova autocoscienza dell’uomo creatore di cultura: il mito di Prometeo. Prometeo, il titanico sfidante degli dei olimpici, diviene l’incarnazione della forza creatrice dell’uomo. L’antica tradizione dell’epoca posteriore lo riconosce come il creatore degli uomini. Ora l’uomo stesso si vede come un tale spirito creatore. La sua autocoscienza diviene quella dell’artista, del secondo autore, del secondo dio che imperiosamente e autonomamente edifica il proprio mondo. Nell’inno a Prometeo di Goethe si esprime in maniera poeticamente esuberante questa autocoscienza titanica dell’uomo dei secoli moderni: “Io sto qui e creo uomini / a mia immagine e somiglianza, / una stirpe simile a me, / fatta per soffrire e per piangere, / per godere e gioire / e non curarsi / di te, / come me”. Si può mostrare molto bene il mutamento nell’autocoscienza dell’uomo che qui si compie a partire dall’uso del linguaggio. È il concetto di genio, cioè il concetto del creatore, che qui diviene contrassegno di questa autocoscienza. Genio, lo spirito inventivo dell’uomo tecnico (si pensi all’espressione “Genio militare”), diviene sempre più quintessenza di questa capacità primaria dell’uomo di progettare il nuovo, l’imprevedibile, l’inatteso e l’apparentemente impossibile. L’uomo geniale è l’uomo dell’ispirazione, dell’intuizione creatrice, che si solleva sopra la massa di ciò che è umanamente comune. Questo uomo viene denominato creativo, una parola che ancora è stata rimodellata a partire dal XVIII secolo e la cui origine dal concetto cristiano di creatore e creazione è stata interamente dimenticata. Si è denominata questa figura l’Homo faber, l’uomo come un fabbro, come un inventore di strumenti, per il quale tutto ciò che esiste deve servire come materia e strumento per le proprie creazioni. La moderna scienza della natura e lo spirito della tecnica, che la conduce all’applicazione, sono la creazione titanica di quest’uomo. Gli elementi dell’immagine dell’uomo non sono in sé nuovi, sono eminentemente greci e occidentali. Ma modellano ciò nonostante una nuova figura che solo difficilmente si lascia inserire nell’ambito delle antiche e usuali rappresentazioni dell’uomo dell’Occidente. L’Inno a Prometeo di Goethe non possiede casualmente tratti anticristiani. È presentato, in verità, anche secondo la rappresentazione cristiana dell’uomo come signore della terra e del suo dominio sull’intera creazione. Ma rimane per lui un ordine dato quello della creazione, che pur disponibile all’utilizzo e al godimento da parte sua, non è però mera materia e strumento del suo arbitrio. In effetti anche la nuova rappresentazione dell’uomo rimane aderente alla antica dottrina secondo cui l’uomo è un essere razionale. Ma cosa significa ora questa dottrina? Cosa significa ora per lui ragione?

Coerentemente la ragione diviene per lui mezzo universale della volontà creatrice. Come soluzione razionale ad ogni domanda vale qualsiasi soluzione appropriata, economica e razionale, che sappia trovare i mezzi idonei. La ragione diviene la facoltà dei mezzi. Ma qual è la misura dei fini e come la si può stabilire? Ancora nel XVIII secolo la ragione era la facoltà dell’incondizionato, ovvero la facoltà dei fini e Kant fondò il principio della moralità in qualche modo nella forma secondo la quale l’uomo in ogni circostanza dovesse considerare l’uomo non come mezzo bensì come fine. Un regno dei fini era per lui la comunità degli uomini propria del diritto naturale. Ora però la natura diviene mero mezzo, diviene tecnica. Serve tutti gli scopi. Questo mutamento nel concetto di ragione innalza l’idea dell’Homo faber al suo più alto compimento. La ragione diviene lo strumento universale dell’essere uomo. In tal modo l’interrogare filosofico dell’uomo però si pone nuovamente la domanda su cosa, dunque, egli sia al fondamento. Già non solo la filosofia, ma la vita stessa richiede un nuova risposta a questa domanda.  Non è stata così diabolicamente persino mutata in sé stessa al punto che per lui il fine che diriga e misuri sia svanito o divenuto impotente? L’ultima figura dello spirito che il mondo borghese considerò come fine della “cultura”, la conoscenza, è divenuto questionabile, questionabile quanto meno in riferimento alla sua forza di dare forma alla vita e ordinarla pienamente al fine di dominarla. I poteri “economici” si dimostrano più forti. Ma cos’è il dominio di questi poteri economici altro se non la conseguenza della mancanza di uno scopo decisivo? È una ribellione del mezzo, che conduce al dominio della tecnica – a quello del denaro come a quello della macchina – sull’uomo, il suo ergersi autonomamente ad una demonica esistenza propria.

Nel mezzo di questa debolezza e cecità della futura mancanza di guida nella quale tribolano i tempi moderni, si solleva la risposta che ha osato Friedrich Nietzsche alla domanda sull’essenza dell’uomo e che in innumerevoli modi è stata ripetuta e declinata come una risposta reale ed influente. Questa prende la propria posizione al centro dell’autocoscienza moderna ma molto più radicalmente di questa non solo riduce le prestazioni della ragione, bensì mette in discussione il suo senso autonomo, la sua pretesa di  salvaguardare ciò che è, di rendere le connessioni fattuali sicure e dominabili. La ragione non è solo uno strumento della vita quanto invece uno dei più ingegnosi ed audaci travestimenti dell’impulso vivente, una facoltà di adattamento dell’essere per il bisogno della vita, un mantello, una superficie, una pelle dell’inconscio. La scoperta dell’inconscio come fondamento trainante della coscienza è un risultato di questa nuova visione. La ragione, lo spirito o in qualunque modo lo designi il lascito del pensiero greco-cristiano, si rivela dipendente e secondario. Cos’è ciò da cui dipende e a cui è subordinato? La risposta epocale che Nietzsche diede in proposito va nella direzione di concepire il vero essere essenzialmente come volontà di potenza. Prepararsi per questa risposta gli parve il compito della filosofia del futuro che con lui iniziava a sorgere. Da Nietzsche in poi la grande creazione è ritenuta il vero senso dell’uomo. Nietzsche lo ha percepito come la felicità dell’epoca in cui noi uomini non abbiamo più alcuno a cui dobbiamo rendere conto se non noi stessi: “L’umanità può d’ora in poi fare di sé tutto ciò che vuole”. È l’estinzione del padrone soprannaturale, del dio cristiano e della morale ciò che garantisce questo nuovo sentimento di sé. Allo stesso tempo la conoscenza di sé stesso dell’uomo si espande attraverso la coscienza storica. “Riguardo al passato godiamo di tutte le culture e i loro prodotti e ci nutriamo del sangue più nobile di tutti i tempi […] mentre culture precedenti potevano godere solo di se stesse e non potevano vedere al di là di sé”. Ad ogni modo proprio Nietzsche ha  sentito più profondamente rispetto al suo secolo l’ambivalenza di questa felicità dell’epoca. Conobbe la necessità di conferire una nuova rilevanza all’esistenza dopo il rovesciamento delle tavole dei valori morali della tradizione platonico-cristiana. Il pensiero greco-cristiano dell’uomo vede nell’uomo la copia di Dio o il portatore della ragione divina. Cos’è però per l’uomo che vuole essere l’autonomo creatore di un mondo una tal cosa? Per l’artista, come si sa, tutto il suo vissuto è il materiale del suo costruire e formare. Anche gli uomini più prossimi sono per lui modello. Così anche per il discepolo del dio Dioniso l’immagine comune dell’uomo occidentale si deve dissolvere.

Non scorge più in tutto ciò che porti il volto d’uomo, qualcosa che rassomigli al suo o a quello di Dio, bensì ancor più ciò che gli uomini debbano essere è per i grandi creatori una questione del loro volere. L’appello di Nietzsche a “razza e allevamento” ha qui la propria origine. L’idea dell’oltreuomo ha la sua distinzione proprio nel fatto che sia qualcosa che non c’è. “Il pensiero più alto: l’uomo è qualcosa che deve essere superato”. La beatitudine del creare viene elevata ad invocazione di un nuovo dio, che Nietzsche chiama Dioniso. Ma solo nella follia gli è apparso questo dio essere lui stesso.

Si lascia a fatica sovrastimare in quale grado questa disperata ascesa dell’umanità moderna del secolo scorso che la filosofia di Nietzsche rappresenta, si trovi al fondo di tutti gli odierni tentativi intorno alla antica domanda sulla determinazione dell’uomo. Quando Ludwig Klages in qualche modo vede nello spirito l’antagonista dell’anima  egli pensa  – ovviamente fino a un certo punto – con Nietzsche poiché intende lo spirito come la capacità calcolante dell’uomo. Quando noi oggi cerchiamo di sviluppare la conoscenza biologica sulla posizione dell’uomo nel cosmo in una determinazione dell’essenza dell’uomo, subordiniamo allo stesso modo l’antica definizione di ragione e spirito a questo nuovo aspetto. L’intellettualismo della concezione dell’uomo elaborata dei greci è ricompreso nel proprio superamento. La critica della coscienza di Nietzsche è divenuta ineluttabile.

Ciò non di meno resta più che mai urgente la domanda sull’uomo. Le vecchie forme del pensarsi sopravvivono accanto ai nuovi tentativi e ricordano questi nella propria unilateralità. La reinterpretazione dell’essenza umana nella forma d’essere generale della vita non offre davvero soluzione. Vorrebbe rendere comprensibile perché l’uomo si interroghi sul proprio essere poiché risponde: “per poter vivere”. Ma non è in grado di rimuovere o soddisfare questa stessa domanda. Qualsiasi risposta che l’uomo tenti per questa domanda può essere una potenza vitale, una concezione del mondo alla quale si innalzi la forza inconscia della sua essenza – proprio la lotta delle concezioni del mondo che oggi incrina l’umanità non lascia acquietarsi la domanda su cosa sia l’uomo. Non deve darsi tra le diverse risposte che oggi si cimentano con questa domanda un ordine possibile, una gerarchia della verità e dei valori? Quando oggi consideriamo la posizione del singolo nell’ordinamento del popolo e da questa stabiliamo i suoi diritti e doveri e la sua intera dignità, così questa concezione ci separa da un’altra che al singolo contrappone una massa anonima ed in questa lo dissolve. Ciascuna di queste risposte può essere ancora a tal punto espressione di un’efficace volontà di vita di un popolo, di una razza, di un corpo storico – l’antica domanda sull’essere e l’essenza dell’uomo si riafferma ancora di più nella lotta di tali opposizioni. Il modo in cui pensiamo non esprime solo la nostra natura ma vuole esprimere anche l’ordine stesso delle cose; vuole essere vero e sicuro della propria superiorità su un altro pensiero. L’antica risposta alla nostra domanda, la risposta della tradizione greco-cristiana non può più essere vincolante. La ragione – su questo siamo stati istruiti – è condizionata ma riesce ciononostante ad essere vera e sostanziale.

Così si trova fondato nell’essenza dell’uomo che una risposta vincolante e da preservare alla domanda “cos’è l’uomo?” non si dia. Se l’essenza dell’uomo non fosse altro che ragione, la risposta vincolerebbe tutti gli esseri razionali per tutta l’eternità.  Così però la domanda resta posta apertamente in una decisione che noi denominiamo storica. Cosa sia l’uomo non sarà mai manifesto senza sempre  nuovamente nascondersi. Non di meno tuttavia in tale risplendere del vero risiede il senso di tutta la battaglia e la dignità della definizione filosofica e storica dell’uomo.

“Ma accade il Vero” (Hölderlin).

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