About a (Danny)boy

DHAbout a (Danny)boy – Se aveva ragione “le Roi” Michel quando disse che anche Einstein sarebbe sembrato un cretino se gli avessero fatto la stessa domanda tre volte al giorno, Daniel Hackett è sembrato agli antipodi della stolida coazione a ripetere truismi quando alla domanda sulle sue motivazioni quando scende in campo ha messo al primo posto “rappresentare la mia famiglia”. Poi, facendosi largo tra la selva di autocelebrazione che trova nelle selfie materialmente e letteralmente la più pura quanto seriale cristallizzazione, parlando della sua mancata chiamata tra i pro NBA, ha evocato il correlato sociale della lebbra, utilizzando la parola “depresso”. Di seguito ha sciorinato pacatamente una teoria di sillogismi su diagnosi e prognosi del basket italiano che suona sommariamente così: programmazione a lungo termine, esposizione degli italiani, fidelizzazione dei tifosi, capacità di creare flusso per gli sponsor, crescita del movimento (come in Spagna, Grecia e Turchia). Oltre alle scelte in campo, qui sono, quindi, quelle lessicali a finire negli highlights: HD inizia a stare per giocatore ad “altra definizione”.

Così arriva a Milano quello che mancava, e cioè molto più di un playmaker: la faccia che nessun altro nel gruppo ha da anni l’indole prima che l’ardire di indossare. Adesso all’Olimpia hanno qualcuno intorno a cui coagulare lo sforzo di eccellere. Senza investiture. Proclami. Peana. Uno che abbia in proprio quell’aura da vincente che non si lasci dissipare dal ressentiment che può generare la quasi ventennale secchezza delle fauci milanesi. Con in più la baldanza della ciocca raggae al posto dell’altero sopracciglio inarcato. Così, in sette giorni sette, DH attraversa tutto lo spettro di emissione emotiva del tifoso meneghino ex-abbruttito e prende in contromano quello di assorbimento della vedovanza inconsolabile del senese, in una operazione precipitosamente completata e perfettamente riuscita, come un espianto-trapianto di cuore, il cui precipitato si stratifica in “MVP dell’orbe terracqueo”, “olocausto budgettario”, “uomo giusto al posto giusto”, con immancabili polveri sottili in sospensione da “mercenario”. Ma quelle, si sa, basta un po’ di pioggia a spazzarle via. Come quella di complimenti dopo la prima partita che si qualifichi autenticamente come europea non per indicazione geografica, ma per qualità complessiva di Milano in Eurolega. Un posto in cui le consacrazioni si celebrano con liturgie imperscrutabili eppur perspicue, e dove quindi il crisma del leader te lo conferisce Vasilis, Patriarca d’Oriente, in una sera in cui riesce a prenderti solo con una gomitata in faccia.

Ma è il modo che hanno gli uomini di dirti che non sei più un ragazzino.

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